DENVER, LA CITTA' ALTA UN MIGLIO
(articolo pubblicato su ATLANTE - 1989)

UN PO’ METROPOLI E UN PO’ VECCHIA AMERICA, LA “CITTÀ ALTA UN MIGLIO” È IL PUNTO DI PARTENZA IDEALE
PER VISITARE LE VICINE MONTAGNE ROCCIOSE E I LORO PARCHI.

 
di Guido Zurlino





   

    Una targa sul tredicesimo gradino del Campidoglio di Denver informa chi si sofferma a leggerla che si trova esattamente a 5.280 piedi di altitudine. Questo dato di per sé non dice molto a noi europei, ma chi conosce i misteri delle misure anglosassoni saprà che quel valore corrisponde esattamente a 63.360 pollici sopra il livello del mare, o se preferite a 1.760 iarde... cioè un miglio preciso. In effetti nessun altro indizio farebbe supporre che la capitale del Colorado si trovi a oltre 1.600 metri di quota (più in alto di Cortina e di Aspen), perché la città si estende perfettamente piatta, all’estremità occidentale di un immenso falsopiano che degrada verso le pianure centrali come una  coltre verde punteggiata di laghi e boschi di pioppi tremuli. Naturalmente le cime ci sono, ma si innalzano sullo sfondo, una trentina di chilometri verso ovest, e per poterle ammirare in tutta la loro grandiosità bisogna salire gli altri 93 gradini della scalinata, fino a una piattaforma disposta sulla cupola dorata del “Capitol Building”. Da lassù la vista è spettacolare: dapprima le morbide Foothills, una serie di rilievi compresi tra i 2.500 e i 3.200 metri, e poi, oltre lo spartiacque continentale, il ripido muraglione del Front Range, un tratto delle Montagne Rocciose formato da picchi innevati di oltre 4.000 metri che partono dal Pikes Peak, a sud, e risalgono per 250 chilometri fino al confine settentrionale con il Wyoming.

Agli avventurosi pionieri che nell’estate del 1858 eressero qui in pochi giorni una boomtown di carri, tende, baracche e ripari di fortuna dopo aver trovato qualche scaglietta luccicante, bastarono pochi mesi per capire che, nei pressi di quel primo accampamento, di oro non ce n’era poi molto. Ma l’arrivo dell’inverno portò un’altra interessante scoperta destinata a cambiare il futuro della città. Tutti i cercatori che si erano trasferiti sulle montagne, a Central City -dove invece il prezioso metallo abbondava- furono costretti dall’asprezza delle condizioni atmosferiche a far ritorno a Denver, che per uno strano gioco di correnti, e soprattutto per la protezione del Front Range, godeva tutto l’anno di un clima asciutto e soleggiato. Tanto per fornire qualche dato, la capitale del Colorado vanta una media record annuale di 296 giorni di sole, superiore persino a San Diego e a Miami Beach, e riceve solo 300 mm di pioggia (contro i 920 di Roma). Questa felice situazione meteorologica e la particolare posizione nel centro geografico degli Stati Uniti decretarono rapidamente la sua fortuna come base commerciale e di scambi. Oggi, la città, che i pionieri battezzarono Auraria, non mostra più i segni della febbre dell’oro anche se durante le escursioni nei dintorni, lungo le strade che si inoltrano nei canyon, è ancora possibile incontrare arrugginiti vagoni minerari, sbarramenti di legno nei fiumiciattoli e tracce di vecchie perforazioni sui pendii. Ma qualcosa dell’epopea dell’oro è rimasta: appena fuori del centro sorge la zecca federale, il luogo degli Stati Uniti dove è conservata la maggior quantità di oro dopo Fort Knox, e dove il turista (oltre a lustrarsi gli occhi con i lingotti) può assistere al conio delle monete e alla stampa della banconote.

Denver è una città linda e ordinata, con strade perpendicolari come una grande e perfetta scacchiera. In soli centotrenta anni è diventata una metropoli di due milioni di abitanti, ma a differenza di altri agglomerati americani cresciuti come cellule impazzite attorno a un nucleo iniziale che hanno poi fatalmente cancellato, la “città alta un miglio” (Mile High City) ha sorprendentemente mantenuto una sembianza a misura d’uomo. Lo si nota nelle strade e nelle piazze della “downtown area”, come la centralissima Larimer Street, che già nel 1870 era una delle vie più famose (e malfamate) d’America. Nei suoi saloon e case da gioco passarono fuorilegge ed eroi dell’Epopea del West quali Calamity Jane, Butch Cassidy e Buffalo Bill, mentre oggi gli stessi edifici recuperati e trasformati in ristoranti etnici, botteghe artigianali, birrerie e boutique alla moda costituiscono lo scenario ideale per una passeggiata serale tra i tavolini dei caffè all’aperto e bancarelle di fiori illuminate dalla luce pallida dei lampioni a gas. Naturalmente le piazzette e i vicoli circostanti sono vietati alle auto e solo il passaggio frusciante di qualche calesse si sovrappone alle melodie diffuse a basso volume dagli altoparlanti nascosti sui tetti delle case vittoriane, con le caratteristiche false facciate, le vetrate colorate, gli archetti di mattoni e le elaborate volute ornamentali.

Quando nel 1894, dopo la grave crisi dell’argento, fu finalmente scoperta a Cripple Creek la vena d’oro più ricca della nazione, Denver fu interessata da un nuovo afflusso di benessere. Questa volta il denaro pubblico fu usato per dare alla città una riverniciata di eleganza. Vennero costruiti il Campidoglio e il Civic Center, si aprirono parchi e i giardini furono abbelliti da monumenti e fontane, furono inaugurati teatri, hotel e musei, e tracciati nuovi viali alberati. Alcuni esempi di architettura fin-de-siècle, come il Brown Palace Hotel e il prospiciente Navarre, un tempo la sala da gioco-postribolo più lussuosa della regione e ora sede del Museum of Western Art, sono interessanti testimonianze di quei giorni di prosperità. Una curiosità. Tra tutti gli edifici del tempo, le autorità comunali si sono premurate di evidenziare in particolare la casa di Molly Brown, una dei pochi sopravvissuti della sciagura del Titanic, soprannominata “The Unsinkable”, ovvero l’inaffondabile.
Sarebbe tuttavia un errore descrivere Denver solo come un museo all’aperto dei suoi trascorsi di frontiera e non prendere atto del suo terzo importante periodo storico: il boom economico e turistico successivo alla crisi energetica degli anni Settanta. Oggi il numero sempre crescente di visitatori in una zona che possiede ben 27 centri sciistici (Aspen e Colorado Springs sono i più conosciuti), due parchi nazionali e 38 parchi statali, con 3.000 laghi e 15.000 chilometri di fiumi e torrenti pescosi, ha reso necessaria la costruzione di un nuovo aeroporto. Iniziato nel 1990, l’avveniristico New Denver International Airport verrà completato alla fine del 1993 e fin dal giorno dell’inaugurazione sarà in grado di raddoppiare la ricettività della città, trasformandola nel più grande centro di smistamento aereo del mondo (Denver è equidistante tra Francoforte e Tokyo).
Lo scenario più spettacolare nei pressi della città (a circa 100 chilometri), meta perfetta per una gita di un giorno è senza dubbio il Rocky Mountrain National Park. Nei suoi 108.000 ettari si trovano decine di vette che superano i 3.500 metri, tra cui la Big Horn Mountain e il Long Peaks, e nel parco si possono noleggiare cavalli e attrezzature da campeggio.
Per quanto riguarda l’architettura, negli ultimi dieci anni sono sorti una ventina di grattacieli che creano uno “skyline” da metropoli del XXI secolo. Ma questa Denver avveniristica non ha trascurato concetti fondamentali come la fruibilità e l’inserimento dell’uomo nell’ambiente. Un esempio è il 16th Street Mall, la più importante strada commerciale della città, che si estende per quasi due chilometri fiancheggiata da negozi, librerie e grandi magazzini. Per creare un’isola pedonale senza penalizzare i clienti, le autorità hanno organizzato un servizio di autobus che con una frequenza di pochi minuti sostano ai quattordici incroci del Mall, raccogliendo gratuitamente clienti, commessi, visitatori e curiosi. Le due stazioni alle estremità del viale sono servite da tutti i mezzi pubblici della città e collegate a capienti parcheggi. In America, forse, da imitare non ci sono solo le “soap operas” e i “fast-food”.