(foto di
Guido Zurlino) |
GOA E KARNATAKA
(Aprile 1993)
Si diceva che ci
andasse Frank Zappa a tenere concerti
memorabili, e già quello a noi
bastava. E poi, il nome suonava bene.
Goa. “Goa dourada” sussurravano con
aria ispirata quelli che la sapevano
lunga, ma in realtà eravamo in molti a
pensare erroneamente che quel nome si
riferisse a un’isola, e prima di
deciderci a partire l’avevamo cercato
invano sull’atlante, laggiù, dalle
parti del Mar d’Arabia.
Tornare dopo vent’anni nello stato
indiano di Goa è un po’ come rivedere
un vecchio film in bianco e nero
colorato artificialmente con il
computer. La nostalgia di sensazioni
ritenute irripetibili viene
sopraffatta dalla meraviglia, e
ricordi e confronti si susseguono a
ruota libera. A quei tempi in India
era in voga andarci in modo
alternativo. Si arrivava in treno fino
a Istanbul e da lì si continuava il
viaggio con mezzi di fortuna. C’erano
i pittoreschi “magic bus” e gli
sgangherati Volkswagen carichi di
hippy disposti ad accettare qualche
passeggero in più in cambio di un
contributo per la benzina. E c’era
addirittura chi proseguiva da solo, in
autostop, sopportando i camionisti
turchi e i loro resoconti di
fantastiche avventure con disinibite
figlie dei fiori americane e tedesche.
In tutto occorrevano un paio di
settimane e si dovevano superare una
mezza dozzina di frontiere, compresa
quella famigerata dell’Iran, con le
foto bene in vista dei trafficanti di
droga condannati a morte e i doganieri
che auscultavano il cuore di chiunque
avesse l’aria sospetta...
Ma tutto questo accadeva vent’anni fa.
Oggi un volo diretto dell’Air Europe
collega in sole nove ore Milano a
Dobalim (30 km dalla capitale Panaji),
risparmiando ai viaggiatori il disagio
di coincidenze soppresse
all’improvviso e attese interminabili
negli aeroporti di un paese che ha
fatto della pazienza l’arma più
efficace per la conquista della
libertà. Spostandosi in auto da
Dobalim verso Goa Velha, l’antica
capitale, appare subito evidente che
sebbene il turismo di massa abbia
sostituito gli hippy ci troviamo
ancora in quella specie di enclave
felice che i portoghesi riuscirono a
controllare fino al 1961, quando lo
stato entrò a far parte dell’Unione
Indiana. La regione è incastonata come
un gioiello tra la catena dei Ghati
occidentali e il Mar d’Arabia, con
morbide colline coperte di boschi di
mogano e di mango e una ricca rete di
fiumi che discendono lentamente verso
le spiagge assolate. L’abbondanza
d’acqua permette due raccolti di riso
all’anno, che affiancati alla pesca e
al recente sviluppo dell’industria
cantieristica garantiscono allo stato
il reddito pro-capite più alto
dell’intera Unione. Già nei villaggi
assonnati, con le loro chiese bianche,
le stradine strette e i tetti di
tegole rosse si nota la bizzarra
simbiosi tra due culture antitetiche
come quella orientale e quella europea
e tra due religioni diverse come
l’Induismo e il Cristianesimo, ma è
solo nell’ex-capitale che l’influenza
portoghese appare in tutta la fosca
bellezza descritta nel 1913 dagli
articoli di Guido Gozzano per “La
Stampa”. La cattedrale rinascimentale
di S.Caterina e la vicina basilica
barocca del Bom Jesus sono le due
pietre miliari dell’architettura
goana, testimonianze di un passato
talmente splendido da giustificare la
famosa affermazione nata in Portogallo
nel XVII secolo: “Quem vin Goa excuse
de ver Lisboa” (chi ha visto Goa non
ha bisogno di vedere Lisbona).
(foto di Guido
Zurlino)
Degli oltre cento
chilometri di litorale che si
affacciano sul Mar d’Arabia al centro
della costa occidentale dell’India, le
due spiagge di Anjuna e Vagator furono
quelle che alla fine degli anni ’70
crearono l’immagine stereotipata del
Goa quale “ultimo paradiso dei figli
dei fiori”, ma anche quella poco
edificante di estremo rifugio dei
drogati. Il nudo integrale (tollerato,
sebbene non permesso), la libertà dei
costumi e l’atteggiamento indulgente
della polizia e degli abitanti nei
confronti delle stravaganze dei
giovani occidentali attirarono
inevitabilmente l’interesse della
stampa internazionale. Il clima e i
chilometri di sabbia d’argento fecero
il resto, e la grande macchina
dell’industria turistica non tardò a
mettersi in moto. Oggi lo stato è in
grado di accogliere senza problemi più
di un milione di visitatori all’anno,
ma se i nuovi progetti di sviluppo
saranno approvati le strutture
alberghiere si quadruplicheranno entro
il 2000, minacciando l’ambiente e
l’equilibrio del mare già in pericolo
per le crescenti richieste di specie
ricercate come aragoste e gamberetti.
Quanto ai vecchi hippy, se ne sono
andati da tempo, soppiantati
dall’ultima generazione di
radical-freaks, più danarosi, poco
inclini ai piaceri psichedelici e
rivolti alla carriera e al culto
dell’aspetto fisico. Passeggiando
sulle lunghe ed esclusive spiagge di
Calangute e Candolim non è raro
incontrare artisti di fama
internazionale o professionisti
locali, come lo stilista Joad T.
(definito l’“Armani indiano”), con il
suo seguito di fotografi e bellissime
top-model. “Vengo qui a riposarmi non
appena ho qualche giorno libero - mi
ha confidato una ragazza del suo
gruppo. - I prezzi sono bassi, e a
parte le vacche sacre che stazionano
sulla spiaggia non mi sembra neppure
di essere in India.” Solo
di tanto in tanto, tra i mercatini
delle pulci, qualche anacronistico
personaggio che pare uscito dal cast
di “Hair” avvicina i turisti esibendo
furtivamente interi campionari di
sostanze illegali. A coloro che
malgrado ogni ovvia considerazione non
riuscissero a resistere alla
tentazione di sfidare la legge, il
consiglio migliore è quello di
mantenersi almeno nell’ambito dei
prodotti “naturali”, restando
opportunamente alla larga da derivati
chimici o di sintesi. Chi invece ha
gusti più ordinari ma non disdegna
comunque le sensazioni forti, potrà
sostare in una delle tante tavernas
sulla spiaggia e aspettare il tramonto
sorseggiando alcuni bicchierini di
feni, il distillato locale servito
nelle due varietà al cocco e
all’anacardo (decisamente preferibile
la prima).
(foto di Guido Zurlino)
Sono sufficienti
cinquanta minuti per volare al di là
dei Gathi e atterrare nel cuore del
Karnataka, lo stato confinante con il
Goa, ma l’impressione è quella di fare
un tuffo indietro nel tempo di
centinaia di anni. Qui, lontano dalla
costa che vide approdare gli antichi
greci, le due città di Bangalore e
Mysore si contendono la supremazia
culturale della regione a colpi di
reminiscenze storiche. La prima città
sorge a 1.000 metri di altitudine
sulle propaggini meridionali del
Deccan, un altopiano ricco di piante
da legno come l’arèca, il teak, il
palissandro, ma anche di spezie come
il pepe e il cardamono, largamente
usati nella cucina indiana. Nel vicino
Parco Nazionale di Bannirghatta vivono
quasi cento varietà di volatili, oltre
a bisonti, cinghiali, agli imponenti
gaur (Bibos gaurus) e agli entelli
dalla lunga coda (Presbytis entellus).
Nel periodo coloniale il clima fresco
e asciutto della zona la fece
prediligere dagli inglesi quale luogo
di villeggiatura, e un giovane
ufficiale di nome Winston Churchill
ebbe modo di apprezzarne le qualità
durante un breve soggiorno.
Mysore, capitale
dell’antico stato omonimo e citata nel
grande poema epico Mahabarata, è
invece conosciuta per la fragranza del
suo gelsomino e del legno di sandalo,
oltre che per la bellezza delle sete.
Tra i molti luoghi che meritano una
sosta lungo la strada (in verità un
po’ dissestata) che collega i due
centri, ricordiamo un varco tra le
colline che fecero da sfondo ad alcune
scene del film “Passaggio in India”, e
il fantasmagorico palazzo d’estate, a
Srirangapatnam, del sultano Tipu, “la
Tigre di Mysore”, sconfitto e ucciso
dal Duca di Wellington nel 1799.
Hassan, il terzo
vertice di questo triangolo, è una
città abbastanza insignificante ma
rappresenta un’ottima base di partenza
per una serie di escursioni di grande
interesse artistico e religioso. Nel
raggio di una trentina di chilometri
sorgono infatti gli incomparabili
templi di Chennakesava, presso Belur,
e di Hoysalesvara presso Halebid.
Entrambe le strutture furono costruite
nel XII secolo e si prestano al
confronto con le grandi cattedrali
europee erette nello stesso periodo.
Purtroppo non è possibile apprezzarle
pienamente, perché è stato calcolato
che dedicando dieci ore al giorno allo
studio dei fregi esterni del tempio di
Chennakesava occorrerebbero più di due
settimane per vederli tutti. I
finissimi lavori di intaglio nella
steatite nera delle pareti riproducono
tutti i momenti della battaglia di
Talakad e centinaia di scene tratte
dai classici poemi Ramayana e
Mahabarata. Secondo la leggenda, la
seducente regina Shantala Devi soleva
danzare in onore del dio Krishna sulla
piattaforma di pietra all’interno del
tempio.
Ritornando a
Bangalore da Hassan si incontra una
delle opere d’arte religiosa più
impressionanti di tutta l’India
meridionale (anche se forse non la più
bella). È l’enorme statua di 17 metri
e mezzo del santo giaina Gomateswara,
raffigurato completamente nudo
(secondo le regole della sua setta)
sulla sommità della collinetta di
Vindhyagiri, nei pressi di
Sravanabelagola. Ricavata da un unico
blocco di granito, l’effige è meta di
pellegrini che a piedi nudi e sotto il
sole cocente salgono (spesso di corsa)
una ripida scalinata di 630 gradini
scolpiti nella roccia viva. Per i
turisti è previsto un servizio di
portantine, ma ai coraggiosi che
rinunciano a questo lusso un po’
decadente, lo spettacolo
impareggiabile della valle... e
soprattutto il fiato corto e le
pulsazioni accelerate garantiscono la
comprensione dell’esperienza mistica
(provare per credere). La discesa non
è meno faticosa, ma la visione delle
bancarelle che vendono fresca acqua di
cocco ai piedi della collina rinnova
le forze. Una curiosità: durante la
guerra del Vietnam questo liquido era
usato per praticare fleboclisi
d’emergenza ai soldati feriti. Se ne
può quindi bere a volontà senza il
minimo timore. Tra l’altro, le sue
proprietà idratanti ne fanno un ottimo
coadiuvante nella cura della “vendetta
della Tigre di Mysore”. E scusate se è
poco.
(foto di
Guido Zurlino)
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