Leggi un articolo di viaggio di Guido
Zurlino (Click HERE)i
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17/02/2003
Le interviste della domenica Il traduttore giramondo Dall'inglese all'italiano on the road di Caterina Caravaggi Forse pochi sanno che a Piacenza si “nascondono” diversi e affermati traduttori letterari. Uso il verbo nascondere, perché l'attività che svolgono questi professionisti fa sì che passino gran parte delle loro giornate in casa, un tempo davanti alla macchina per scrivere, oggi davanti al computer, per renderci possibile la lettura di romanzi e racconti di autori stranieri. Uno di loro, Guido Zurlino, che da quasi trent'anni traduce dall'inglese saggi e romanzi (clicca qui), ha combattuto la sedentarietà di questo mestiere girando il mondo come interprete e giornalista turistico e vivendo per molti anni in America. A lui abbiamo voluto rivolgere alcune domande su un'attività e su una figura, quella del traduttore, a cui non rendiamo forse il giusto merito, considerato che è tramite la sua opera che possiamo tutti i giorni godere del piacere della lettura. - Tu hai vissuto per diversi periodi della tua vita in America. Il mondo che hai conosciuto là lo hai ritrovato poi nei libri che hai tradotto? «Direi piuttosto, al contrario, che il mondo che ho conosciuto sui libri mi è piaciuto tanto che ho voluto vederlo da vicino. Così, per esempio, dopo aver letto da ragazzo On the Road (Sulla strada) sono partito per l'America e ho viaggiato in autostop da Boston a Lowell, nel Massachusetts, per andare a vedere la casa di Kerouac. La stessa cosa vale per l'altra grande mia passione, la musica, per cui ho girato per la provincia USA suonando la chitarra per strada e nei locali e incontrando alcuni dei più grandi interpreti americani, come John Fahey e il grande folksinger Pete Seeger. Quest'ultimo l'ho incontrato in un negozio di strumenti musicali, e ricordo di averlo riconosciuto sentendolo parlare con il commesso nella stanza accanto a quella dove mi trovavo io: aveva un timbro di voce inconfondibile». - Hai conosciuto anche qualche scrittore? «Purtroppo no, non mi è mai capitato. A Bangor, per esempio, nel Maine, ho cercato di incontrare Stephen King, che qui è nato e vive, ma non ci sono riuscito. Tuttavia mi sono reso conto di come i paesaggi spettrali e nebbiosi delle fredde pianure del Maine abbiano potuto ispirare l'autore di Misery. C'è da dire poi che molti degli scrittori che amavo erano già morti e quindi non ho potuto fare altro che andare a visitare i posti dove avevano vissuto, come ho fatto quando sono stato a Key West, in Florida, l'isola resa famosa da Hemingway e dalle sue leggendarie battute di pesca al marlin. - E il mitico viaggio “Coast to Coast”? Hai fatto anche quello? «Ho fatto di meglio. Stanco di questo cliché del viaggio che attraversa gli Stati Uniti dall'Atlantico al Pacifico, ho deciso di mentenermi nella stessa fascia culturale e attraversare l'America in linea verticale, dal gelo del Maine al sole della Florida, lungo i 3.970 km della strada più vecchia degli Stati Uniti, la mitica Highway One, che, ricalcando antiche piste indiane, corre parallela alla costa. Era una novità assoluta e il reportage che ne ho tratto, che è stato pubblicato in Italia sull'ultimo, storico, numero di Atlante (e anche su Libertà, ndr) mi è valso il riconoscimento Media Awards dell'USA Visit Commitee». - Tu hai tradotto autori americani e autori inglesi. Che differenze ci sono tra la lingua degli inglesi e quella degli americani? «Contrariamente a quanto si pensa comunemente, a parte alcune espressioni e vocaboli diversi e l'accento, non ci sono grandi differenze tra l'inglese e l'americano. Quello che cambia enormemente invece è lo stile. Gli inglesi hanno una certa tendenza a una struttura più classica, a lunghi periodi formati da una concatenazione di principali e subordinate, mentre gli americani usano una serie di frasi corte, secche, nettamente staccate una dall'altra da un punto. Per cui tradurre in italiano un romanzo inglese può significare a volte dover aggiungere qualche punto, mentre nel caso di un romanzo americano spesso bisogna toglierne qualcuno.» - Tradurre un romanzo significa ricreare uno stile. Come si fa? «La traduzione di un romanzo comporta un doppio passaggio, dalle parole che leggi in lingua originale, all'immagine che queste parole creano nella tua mente, e da qui alle parole in italiano che riescono a ricreare questa immagine. Questo avviene soprattutto per i dialoghi, dove, per rendere le stesse sensazioni, la stessa immagine, tante volte occorre usare parole diverse da quelle scelte dall'autore. Capita spesso per esempio - quasi sempre, per la verità - che una frase che in inglese suona divertente, tradotta letteralmente in italiano non faccia affatto ridere. In questi casi, per ricreare lo stile dell'autore o il taglio dato a un personaggio, bisogna tradurre sensazioni, più che parole. Il tono della frase concorre con le parole a trasmetterti un messaggio, a creare un'immagine. Per ricreare uno stile bisogna tradurre anche quello» - Giovanni Raboni, che è stato il mese scorso a Piacenza, parlando della sua esperienza di traduttore, ha detto che il rapporto con un testo che si traduce è di un'intimità spaventosa. Sei d'accordo? «Assolutamente sì. Ogni volta che traduco un romanzo vengo assorbito da quel mondo immaginario, mi calo nel personaggio principale e nell'atmosfera, nell'ambiente in cui si svolge la storia, al punto che in quel periodo comincio più o meno ad assumere il modo di pensare del protagonista del libro, e persino il mio modo di parlare è influenzato dalle frasi che lui potrebbe dire in quella situazione. Così mi sono ritrovato più volte a comportarmi in qualche misura come un'altra persona, ad assumere l'atteggiamento del personaggio principale del romanzo che sto traducendo. Anzi... approfitto di questa occasione per scusarmi con amici e conoscenti, che forse qualche volta mi hanno trovato “un po' strano”: era sicuramente colpa del libro che avevo per le mani in quel momento!». - Sempre Raboni, ha detto che per imparare a scrivere non c'è niente di meglio che tradurre. Ma per tradurre bene non bisogna già saper scrivere bene? «No, ha ragione Raboni. Io, per esempio, a scuola, avevo pessimi voti in italiano. Ero molto bravo in ortografia, grammatica e sintassi, ma avevo grosse difficoltà nei componimenti. Ho imparato a scrivere lavorando, traducendo.» - Cosa pensi dei programmi di traduzione automatica? «Penso che siano utilissimi quando uno, in un posto sperduto dove parlano una lingua di cui non sa assolutamente nulla, si trova, assetato, a voler chiedere un bicchiere d'acqua. Da qui a dire che la nostra categoria possa temere, in tempi brevi, la concorrenza di questi programmi, ce ne passa. Il grande difetto dei traduttori automatici è che non sono in grado di valutare il contesto delle frasi e delle parole, per cui danno luogo molto spesso a frasi senza senso. Umberto Eco ha esemplificato questo concetto, traducendo una pagina di un romanzo dall'italiano all'inglese con un traduttore automatico e ritraducendo il risultato in italiano, sempre con uno di questi programmi: il risultato finale era esilarante. Un esempio eclatante è l'enigmatica frase: “Il Papa darà un indirizzo ai pali”, che altro non è che un'errata interpretazione automatica dell'inglese “The Pope will give an address to the Poles” (il Papa terrà un discorso ai polacchi). A proposito di errori, bisogna dire che a volte ne scappano anche ai traduttori in carne e ossa..» - Ho letto da qualche parte in Internet di quel famoso verso di Dante “Guido i' vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento”, non riconosciuto in inglese dal traduttore e tradotto in “presi in forza di un volitivo incantesimo...” Ora, forse questa è una leggenda metropolitana che circola nell'ambiente, e comunque non si tratta in realtà di un errore di traduzione, ma può capitare di fare gravi errori? «Ci sono due errori in cui può incappare un traduttore: uno è la svista, dettata dal fatto che si ha spesso una grandissima fretta, l'altro è il vero e proprio errore di interpretazione, in cui però di solito cadono solo i principianti. Il primo tipo di errore si combatte con la logica, il secondo con l'esperienza. Io per esempio ho avuto la fortuna, all'inizio della carriera, di avere alle mie spalle Gianni Montanari, che oltre ad avermi introdotto nell'ambiente, mi ha fatto in qualche modo da paracadute, intervenendo con consigli e suggerimenti, e togliendomi qualche volta dall'impaccio. Diverso è il discorso se si incontra un errore di stampa nell'originale (cosa assai frequente), perché il cambio di una consonante o di una vocale in una parola inglese può dar luogo a un altro termine di senso compiuto, e da qui a una frase di difficile comprensione e di ancora più difficile interpretazione. In questo caso il povero traduttore non ha nessuna colpa..» - Qual è stata la traduzione che ti ha impegnato di più? «Potrei risponderti scherzosamente che è sempre quella su cui sto lavorando... perché per un motivo o per l'altro la fatica è sempre tanta. Ti dirò invece quale romanzo è stato più divertente. E' stato un romanzo di James Flint, “Habitus”, che ho tradotto nel 1999 per Marco Tropea Editore. In circa venticinque anni ho tradotto quasi centocinquanta tra romanzi e saggi, ma non mi era mai successo di divertirmi tanto come con questo libro, né di dovermi documentare così frequentemente sugli argomenti trattati, con continue visite in biblioteca e consultazioni di siti Internet. La teoria quantistica, le mutazioni genetiche, i segreti della Cabala ebraica, la matematica del caos, Laika (il primo cane nello spazio), il calcolo delle probabilità, J.F.Kennedy, l'Olocausto, gli attrattori di Lorenz e il paradosso teologico del bene e del male, sono solo alcuni degli infiniti temi apparentemente inconciliabili che trovano una collocazione logica e una spiegazione credibile nelle pagine di quel romanzo straordinario. Proprio in questo periodo sto traducendo il secondo romanzo di Flint, che uscirà da noi tra qualche mese. Il protagonista è un prestigiatore... vuoi che ti faccia vedere qualcuno dei suoi trucchi?» Caterina Caravaggi |
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